Il Tritaossa

C’era una volta una povera donna che era sempre, giustamente, incavolata. Questo lo era soprattutto quando doveva usare il tritacarne. Tutte le volte che lo usava, infatti, per farlo funzionare (era difettato “ma ancora quasi nuovo”, come diceva il marito), doveva spingerlo con forza verso il basso per formare chissà quale contatto elettrico.

Purtroppo a suo marito piaceva enormemente il ragù di carne (ci condiva praticamente tutto!) e, al figlio Luca, un tipino tutto Yeah!, non potevano mancare le polpette o gli Hamburger. E alla figlia Floriana… beh, lei era vegetariana, ma dava da fare come e forse più di Luca: la dolce figliola non si preparava i suoi pasti particolarissimi (a volte anche molto impegnativi), non si lavava le sue cose, non metteva a posto camera sua. Non aiutava in niente, in casa! Inoltre era in piena Pubertà, e questo la dice tutta!
A già: poi c’era Rambo, il cane lupo più vorace, grosso, grasso, stupido, sporco e aggressivo della città, anzi del mondo intero. Era un “vero piacere” vederlo mangiare, veloce ed intoccabile: guai infatti ad avvicinarsi quando si ingozzava dalla sua ciotola (lo potevano fare solo Luca ed il marito). Anche lui, su consiglio del padrone di casa (non il cane: il marito), era nutrito sano a carne cruda e verdure secche (carne tritata da lei, naturalmente!), mica la solita sbobba per cani!

Il marito non è che non lavorasse, anzi: anche troppo. Ma mai abbastanza per condurre una vita, come dire, degna, comoda, agiata; o almeno quel tanto per acquistare un nuovo, fiammante, tritacarne. Lui, il suo consorte, a proposito del comprarne uno nuovo diceva (con un sorrisetto da vera merda!): “Perché spendere soldi in qualcosa che funziona?! Prima o poi vedrai che lo riparerò!”. Ma lui, lui lavorava sempre, da mattina a sera, esclusa la domenica quando guardava la TV o lavorava in giardino. Mai una parola, sempre e solo mutismo assoluto, o nervosismo, o litigio. E non amava neppure uscire, passeggiare, fare un viaggio, neppure una piccola visita nella vicina città, che so: a prendere un gelato. Restava sempre in casa davanti alla TV o in giardino a fare l’orto, come già detto. Lei svolgeva le normali attività della giornata, normali per modo di dire. Per lei non esisteva mai domenica, non usciva mai (vivevano anche in campagna, praticamente isolati), sgobbava tutto il giorno per i quattro ospiti d’albergo che aveva (il marito, il figlio, la figlia ed il cane) e la sera… la sera lui era sempre troppo stanco o troppo nervoso per vederla, per parlarle, per amarla. E lei era sempre più delusa, remissiva; ormai non riusciva neppure più a chiedere, o anche solo desiderare, qualcosa; stava “buona”, in silenzio, forse piangendo ma di nascosto: nessuno doveva sentirla!

Un giorno qualsiasi, il tempo non ha molta importanza – ma pioveva a dirotto – Patrizia (così si chiamava la donna), era intenta a macinare carne e verdure per tutti e, come sempre, a spingere con forza sul tritacarne per farlo funzionare (ho già detto che era difettato?). Per colpa di uno sciocco quanto inaspettato sobbalzo provocato da un osso troppo grosso percosso dalle lame del “Tritaossa” (così veniva chiamato il Tritacarne dalla nostra amica), una violenta vibrazione, ripercuotendosi e sviluppando una concatenazione di onde telluriche a partire dalle ossa nel tritacarne alle ossa delle mani della dolce Patrizia, passando quindi alle gonfie braccia, su, su, fino a raggiungere la massa grassa del torace, dei suoi poderosi seni e del collo, della nuca, di tutta la testa, finì per farle sobbalzare i lobi delle sue orecchie.

Un piccolo istante e una piccola perla incastonata in un orecchino – di finto oro, naturalmente! – si staccò finendo dritta dritta nel Tritaossa. Lei fu rapida a mollare la presa del “coso”, il quale subito si fermò. La perla rimase imprigionata nell’ingranaggio del tritaossa, ma ancora intera. La donna, in piedi a circa un metro dal suo odiato Tritaossa, sudata e spettinata, con pezzetti di carne trita appiccicati in faccia, al collo sudato ed alle gonfie braccia, lo guardava, con lo sguardo fisso, stringendo i pugni, percorsa da una rabbia indicibile, tesa, ansimando – quasi in lacrime. Nei suoi pensieri lo maledisse profondamente! Malediceva la carne trita; ed il cane; ed il marito che: mangia e zitto; e Luca che: mamma lavami e stirami questo, e oggi ci sono gli amici fai hamburger per tutti; e Floriana con le sue immancabili bizze (protetta sempre dal caro, dolce Paparino) e i suoi “vorrei-tu-non-fossi-mia-madreee!”.

Naturalmente la donna avrebbe spaccato ogni cosa se non ci fosse stato da tirar fuori la perla dal Mostro-Coso-Tritaossa! Era importante, preziosa – soprattutto in quel momento! Erano gli orecchini che suo padre aveva regalato a sua madre il giorno del loro fidanzamento. Oh, solo la perla! Il fermaglio l’avevano fatto cambiare con uno di similoro quando il marito volle creare una sua piccola azienda di consulenze per contadini in pensione (cosa che finì in un fallimento totale) e c’era bisogno di soldi.

Insomma: per far uscire la perla incastrata fra due “lame” del Tritaossa, bisognava far leva da sotto. Prima cercò di toglierla con un mestolo di legno, con l’impugnatura, poi con la parte piatta, ma non ci fu proprio verso. La perla non cedeva e restava ferma incastrata. Se la rompeva, pensava, l’avrebbe fatta mangiare a quel figlio d’un cane di Rambo. Il giorno gli entrava (o lo facevano entrare loro) in casa tutto sporco, e lei: sempre li a pulire. E la notte non la faceva dormire con i suoi ululati alla luna, anche senza luna, o con il rumore della porta che sbatteva contro il muro quando si grattava. E poi per i gatti, le auto, la pioggia sul tetto, il vento… non stava quieto un momento! Ma gli altri dormivano tutti tranquilli. E suo marito russava anche più forte di quanto il cane abbaiasse. Maledetti! Maledetti tutti! Lanciò il mestolo per terra. E un calcio, ed un pugno, e rabbia… e le solite lacrime. Ed odio, anche più di prima. Odiava tutto… TUTTO e TUTTI!

La perla, doveva recuperare la perla!
In un attimo, senza pensarci minimamente, mise la mano a pugno nel tritacarne e, con l’indice destro, fra le lame, si mise a far leva con tutte le sue forze. La sentiva, con il polpastrello, era liscia, e si muoveva un poco, ora a destra ora a sinistra. Il tritaossa che, poverino, non c’entrava nulla, non era spento e, sotto la spinta e il peso di Patrizia, si rimise in moto (ho già detto che era difettato?). La perla, con un secco colpo, si spezzo. Ma non era la sola cosa che si spezzò! Un urlo di dolore echeggiò fra le stanze vuote, nessuno la sentì. Neppure il cane le diede attenzione pur sollevando appena appena, svogliato, le orecchie.

Quando arrivò al Pronto Soccorso, portata dal marito Carlo, aveva mezzo dito in tasca, uno straccio insanguinato intorno alla mano destra, ed era quasi del tutto dissanguata. Egli l’aveva trovata, al suo rientro per il pranzo, ancora in cucina, semi-incosciente, seduta su una sedia, quasi sdraiata sul tavolo dove si trovavano: una pentola di ragù, un vassoio pieno di polpette, verdure e Tofu abbondanti, e la ciotola per il cane già pronti. Il sangue era dappertutto. Dovettero naturalmente trattenerla, ricoverarla. Le fecero una trasfusione urgente e poi cercarono di riattaccarle la falange del dito. Lei era in stato di choc ma, in un breve momento di lucidità, poco prima di essere portata nel reparto, fu in grado di dire al marito – che dolcezza di donna! – di tornare a casa dove i figli ed il cane aspettavano per mangiare. Il ragù per lui era pronto, e così le polpette, le verdure ed il Tofu per i figli. Dovevano solo mettere sul fuoco a scaldare. Per il cane bastava mettergli la ciotola per terra.

A quelli dell’ospedale si illuminarono gli occhi dalle lacrimuccie: Patrizia appariva ai loro occhi la moglie/madre ideale, perfetta. E questo lo dissero anche al marito che, con un bacio ed un “A presto, Amore”, si allontanò per tornare a casa dove l’aspettava il suo delizioso, amato, pranzetto. Anch’essa, con un vago sorriso, gli rispose con un “A presto, mio caro!!!”

Alcune ore più tardi la polizia, dopo aver suonato e bussato alla loro casa senza risposta, dovette buttar giù la porta per entrare. Trovarono il cane addormentato vicino alla sua ciotola, ed il padre, il figlio e la figlia, ancora caldi, mai alzati da tavola: uno appoggiato allo schienale della propria seggiola, a bocca aperta e con ancora resti di spaghetti in bocca; il giovanotto con la faccia nel piatto ancora con pochi resti di hamburger; la ragazzina con la faccia tra le gambe del padre. Tutti è quattro morti stecchiti. La polizia stava portando loro la triste notizia della morte della dolce mogliettina, di Patrizia, deceduta nel pomeriggio per cause ancora da chiarire. Ma non ci volle molto per capire: appena qualche ora e l’autopsia rivelò tracce di Veleno nel suo sangue e sulla ferita al dito. Lo stesso veleno lo trovarono, ancora più tardi, nei resti del ragù, negli spaghetti, nell’Hamburger, nell’insalata con Tofu, e nel cibo nella ciotola del cane.

Ancora non si spiega come la donna avesse potuto vivere cosi a lungo. Sicuramente, Patrizia, era una donna di carattere, forte, la vita l’aveva formata (come forma tante altre povere donne non amate) e gli aveva insegnato ad essere dura, resistente ad ogni cosa. Evidentemente anche ad una dose da cavallo di veleno, e per così tanto tempo!


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