Il serial killer

Marco era sempre stato un tipo un po’… fuori dagli schemi. Al ristorante “La Pentola d’Oro”, dove lavorava come aiuto cuoco da ormai cinque mesi, era noto per i suoi racconti strampalati e le sue ripetute scuse fin troppo colme di fantasia. Era il classico personaggio che, pur suscitando un misto di simpatia e irritazione, finiva sempre per farsi perdonare da tutti per i suoi modi scherzosi. Ma quella sera di novembre c’era qualcosa di diverso in lui. Sembrava veramente molto scosso, come se avesse visto un fantasma. O peggio!

Entrò in cucina come una folata di vento freddo, trafelato, il viso pallido e gli occhi sbarrati. Lo chef Antonio, che stava affilando un coltello al centro della grande cucina, alzò lo sguardo appena. Non disse nulla. Aspettò, con la calma di chi sa già come andrà a finire, questa volta visibilmente irritato. L’intero staff si fermò per un istante, osservando Marco e Antonio come se avessero percepito l’eco di un presagio funesto.

“Chef! Chef!” ansimò Marco, quasi inciampando nel grembiule che si stava ancora mettendo. “Non ci crederà mai… c’era qualcuno che mi seguiva! Un serial killer, ne sono certo! Mi ha pedinato per tutto il tragitto fino a qui. Ho dovuto correre, nascondermi, fare deviazioni… È stato orribile!”

Antonio lo osservava in silenzio, asciugandosi con calma le mani nel grembiule. Era un uomo alto, robusto, dai movimenti precisi e dallo sguardo imperscrutabile. C’era una sorta di quieta autorità in lui, una presenza che non lasciava spazio alle emozioni superficiali. Infine, gli fece cenno di avvicinarsi, come un giudice che concede la parola all’accusato.

“Calmati, Marco. Adesso sei qui, al sicuro. Raccontami tutto.”

Il giovane cameriere iniziò a narrare, gesticolando convulsamente, una storia tanto rocambolesca quanto poco plausibile. Parlò di vicoli bui, ombre che lo inseguivano e deviazioni improvvisate per seminare il suo presunto inseguitore. Antonio, nel frattempo, continuava a preparare gli ingredienti per il servizio serale. Il rumore ritmico del coltello sul tagliere accompagnava il racconto come un metronomo, quasi ipnotico, interrotto solo dal lieve scoppiettio dell’acqua che bolliva in una pentola sul fuoco.

“…e poi ho svoltato l’angolo, e sono riuscito a seminarlo un attimo prima di arrivare qui!” concluse Marco, ancora ansimante. “Mi crede, vero chef?”

Antonio gli sorrise. Un sorriso che non raggiunse mai gli occhi. “Certo che ti credo, Marco. Anzi, perché non vieni qui? Siediti. Ti servo qualcosa di caldo, un bel brodo, per riprenderti dallo spavento.”

Grato per la comprensione del suo capo, Marco si avvicinò al bancone. Non notò come Antonio si fosse posizionato strategicamente tra lui e la porta della cucina ad affilare, ancora ed ancora, il suo coltello preferito – lo poteva usare solo lui, quel coltello. Era sacro!

“Sa, chef,” continuò Marco con voce più tranquilla, ormai rilassato, tenendo in mano il cucchiaio con il brodo, “ho sempre avuto una gran paura dei serial killer. Li trovo… affascinanti, in un certo senso. Ho letto tutti i libri sull’argomento e tanti racconti che ne raccontano le gesta ed i delitti. Ma incontrarne uno dal vivo… uff, è terrificante!”

Antonio si fermò per un istante, il coltello in mano. Guardò verso la sala da pranzo accertandosi che nessuno arrivasse. Poi parlò, la sua voce improvvisamente più fredda, più profonda. “Oh, Marco. Non dovresti avere paura dei serial killer per strada. Dovresti avere paura di quelli che conosci.”

La lama colpì con un movimento rapido, preciso.

L’ultima cosa che Marco vide fu il riflesso del suo volto terrorizzato nella superficie lucida del coltello. Il suo flebile urlo si perse nel rumore della ventola di aspirazione e della musica che proveniva dalla sala ristorante. Il silenzio che seguì fu quasi sacro, interrotto solo dal suono di Antonio che riprendeva a tagliare, come se nulla fosse accaduto. La cucina tornò alla sua routine, con una freddezza disarmante. Nessuno si accorse di nulla.


Il giorno seguente, il menu speciale del giorno alla Pentola d’Oro includeva una nuova ricetta: “Filetto alla Marco, carne giovane e tenera in salsa speciale dello chef”. I clienti furono entusiasti, elogiando la dolcezza straordinaria della carne. Ogni boccone sembrava sciogliersi in bocca, lasciando un sapore unico e indescrivibile.

Antonio accettò i complimenti con il suo solito sorriso professionale. Dopotutto, la sua vera arte non era solo cucinare, ma selezionare gli ingredienti migliori. E Marco… be’, Marco era stato un ingrediente davvero speciale.

Quando qualcuno chiedeva del giovane cameriere, Antonio scrollava le spalle con nonchalance. “Ha trovato un lavoro migliore in un’altra città.” Nessuno fece mai domande. Nessuno sospettò mai che il vero serial killer non fosse nelle strade buie, ma dietro ai fornelli del ristorante più rinomato della città.


La cucina di Antonio, di notte, si trasformava. Le luci si abbassavano, le ombre diventavano lunghe e dense, e l’aria si riempiva di aromi che solo lui sapeva riconoscere. Era in quei momenti che si sentiva davvero vivo, padrone di un’arte segreta e imperscrutabile. Ogni dettaglio era calcolato con precisione maniacale. Le lame dei coltelli, allineate perfettamente, sembravano brillare di una luce propria sotto il bagliore soffuso delle lampade.

Ogni vittima portava con sé un sapore unico, una sfumatura che solo uno chef del suo calibro poteva apprezzare. Il terrore, rifletteva Antonio nei suoi momenti di solitudine, aggiungeva alla carne una nota inconfondibile, come un vino invecchiato alla perfezione. Era convinto che ogni emozione lasciasse una traccia, un’impronta sottile che poteva essere percepita da un palato allenato come il suo.

I suoi taccuini erano pieni di appunti meticolosi: ricette, profili delle sue “materie prime”, osservazioni sui comportamenti e le abitudini dei suoi potenziali ingredienti. Ogni corpo veniva trattato con la stessa cura che Antonio dedicava alla preparazione di un piatto stellato. Nulla andava sprecato. Le ossa? Perfette per il brodo. I tagli più pregiati? Trasformati in prelibatezze che i critici gastronomici lodavano senza sapere. La pelle, persino quella, trovava il suo utilizzo, essiccata e trasformata in qualcosa di raffinato e inatteso.

La Pentola d’Oro era diventata un tempio della cucina, e Antonio il suo gran sacerdote. Nessuno avrebbe mai immaginato che dietro quel sorriso cordiale e quei modi impeccabili si celasse un predatore silenzioso. La sua doppia vita era una sinfonia perfetta: chef rispettato di giorno, cacciatore spietato di notte. Le sue vittime erano scelte con cura, mai a caso, e ogni sparizione era orchestrata con una precisione quasi chirurgica. Aveva creato un equilibrio perfetto, un sistema che nessuno avrebbe potuto incrinare.

E mentre la città dormiva tranquilla, Antonio continuava a creare. Ogni piatto era un capolavoro, ogni vittima un ingrediente insostituibile. Perché, come amava ripetere ai suoi clienti più affezionati: “Il segreto sta tutto negli ingredienti.” Era un segreto che avrebbe portato con sé nella tomba, o più probabilmente, in cucina, tra l’aroma pungente delle spezie e il calore rassicurante dei fornelli.


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