Lei, la mia vita

Era già un po’ che, dal balcone, la guardavo distesa sul suo letto. Un lenzuolo leggero la copriva appena e, le sue forme, erano messe ancor più in risalto dai pochi pallidi giochi d’ombra che la luna piena creava: un riflesso di luce modellava ciò che il sole non avrebbe mai neanche potuto far immaginare. Era bellissima!

I suoi capelli neri, con le loro onde, si spargevano sul bianco cuscino come un mare scuro – tempesta a tratti spumeggiante – contenuto dalle sue candide braccia, coste ancora vergini ma già accarezzate e baciate dal mio pensiero, dai miei sogni, dal mio desiderio: com’erano morbide, com’erano dolci e saporite.

Al centro di quel tempestoso mare vi era il suo viso – Isola, mio desiderato eremo – di una luminosità che a stento perfino la luna faceva impallidire.

Le sue labbra sembravano create apposta per essere baciate, per essere bevute, tanto erano fresche. E lei, nel sonno, le muoveva chiamandomi verso di loro; a tratti tutta se stessa mi chiamava verso di sé e allo stesso tempo io ero rapito da una strana onda, forse desiderio, forse gioia di saperla già mia, mia sola fonte di vita.

Anche lei già sapeva di esserlo. Fin da quando ci eravamo notati nella taverna di suo padre, due piani sottostanti, la sera prima. La vidi non appena mi sedetti al mio tavolo, mentre usciva da una porta, presumibilmente la cucina; aveva in una mano un vassoio e nell’altra un boccale di terracotta. Dal suo corpo, che si muoveva veloce e agile fra i tavoli e le persone, avvertii la forza interiore di chi è nato nel posto sbagliato ma è riuscito ad adattarvisi; nei suoi occhi intravidi l’essenza stessa della vita pulsare come un secondo cuore.

Molti sciocchi continuano a credere che gli angeli siano anime divine, non umane, o addirittura soltanto un mito biblico. Invece, ciò che essi definiscono angeli, sono in terra in mezzo a loro; e solo il non riconoscerli fa sì che essi non siano manifesti. Riconobbi in lei una di quelle creature, parto di un Dio forse troppo svogliato o disattento per donarle anche un paio di ali per poter volar via.

Anche lei, nella sua umile non conoscenza, mi riconobbe. Per un istante si rimase isolati dal resto della gente e dai rumori che invadevano la taverna, immobili a pochi metri di distanza, guardandoci. Poi tutto cominciò di nuovo a muoversi, accompagnato dal solito rumore di quel caotico mondo pulsante. Lei si guardò intorno quasi fosse sorpresa di notare altra gente, altri rumori. Tutto tornò come prima, esternamente; in noi c’era già l’altro. Non è mai stato impossibile percepire questo richiamo, soprattutto quando il bisogno d’amore ci rende ancora più sensibili; molti si sono dimenticati di questa specie di magia o la hanno cancellata dalla loro memoria per far crescere in loro l’uguale, il sociale, il consueto, il buon costume, il consono, il normale. Per non essere diversi, per non essere se stessi, unici, irripetibili.

Anche adesso, su questo terrazzo, io la sto chiamando a me, come lei, nel suo sonno, sta desiderando e chiamando me.

Ecco che mi ha finalmente sentito. Ed ora mi ha finalmente rivisto: è bellissima così, stupita di me e anche di sé, di ciò che sta provando, fra desiderio e timore di ciò che per lei è ancora ignoto ma che conosce sotto il nome di “Peccato”. In lei ora si rincorrono due sentimenti contrastanti, due poli opposti che vibrano, che con il loro attrarsi e respingersi, attraggono e respingono le nostre anime, risvegliano i nostri desideri, le nostre paure.

Ma ecco che si alza; la sua anima, il suo fiato, fa a tratti innalzare e distaccare fra loro i due seni, per poi ricongiungerli e riabbassarli.

Alfine i due poli si uniranno, si capiranno, si unificheranno, si muoveranno intorno ad un unico centro.

E’ così bella mentre mi guarda da dietro la finestra, eccitata e immobile, piena di timori, di presagi.

Dopo che le nostre mani si schiusero per toccare opposte parti di un vetro, lei mi aprì la porta-finestra e, prima ancora che io entrassi dal terrazzo nella sua camera, mi prese per mano.

All’interno, nell’aria, si spargeva il classico odore delle camere da letto: odore di sonno, di sudore, di coperte, di polvere; ma soprattutto già si spargeva odore di mistero, di scoperta furtiva, di futuro.

Si distese sul letto e la sua mano sinistra portò la mia mano sul suo seno, mentre le dita della destra mi accarezzavano la nuca, le orecchie, il mio viso, scoprendomi con il tatto e avvicinando sempre più verso le sue labbra le mie, verso il suo corpo il mio.

Ci baciammo e ci accarezzammo a lungo, fino a spogliarci di ogni freno fisico e mentale. Poi, piano, mi calai verso il suo collo e, mentre le mie labbra e la mia lingua le sussurravano frasi d’amore senza emettere alcun suono oltre quello del mio fiato, scendendo dai suoi lobi fino alle scapole, fino al seno, per poi dalle ascelle risalire di nuovo al collo in una danza di desideri e di fremiti, lei cantava una nenia con il suo respiro, un sottofondo musicale fatto da improvvisi ansimi e rilasci.

Il suo corpo si muoveva piano sotto le carezze delle mie mani, e i suoi occhi ormai non vedevano altro che il suo interno mondo agitato e a me apparivano ormai come due lumi bianchi.

Dopo che tutto era stato delicatezza, carezza e bacio, si fece strada piano in me il desiderio di mordere, in lei di graffiare, e il tutto si trasformò in una danza frenetica, fatta di singulti, di tormentoso desiderio di provare e far provare dolore.

Fu allora che le morsi il collo. Sembrò che l’avesse sempre desiderato; il suo corpo si arcuò con me sopra e dalle sue labbra non usci solo fiato ma un sussurro, una piccola parola carica di passione, di dolore desiderato, nascosto, imprigionato, finalmente libero. E mentre sempre più lei si muoveva accanto a me, sotto di me, i suoi sospiri si fecero sempre più sostenuti; le mie labbra sempre più baciavano, succhiavano quell’ormai bollente, umido collo.

Poi, dopo un ultimo, sudato, sussulto prolungato, tutto cominciò ad acquietarsi piano, fino a che tutto si fermò.

Stetti ancora un minuto a guardarla lì, immobile, riversa sul letto, pallida e bella più che mai. Ora la luna non la illuminava più, ma i miei occhi potevano vederla ancora: gli occhi chiusi, il viso dall’espressione rilassata, pieno, soddisfatto. Sembrava dormire.

Sazio mi avvicinai alla finestra, la aprii e stetti sul balcone ad osservare la città addormentata sotto di me. La luna era lambita da una nuvola, la sola nel cielo. Qualche cane lontano abbaiava chissà a quale ignoto fantasma. L’aria era fresca, pura, frizzante, ed io l’assaporavo finalmente con pienezza, con gioia, pieno di vita.

Restai ancora qualche minuto in contemplazione di tutto, poi, finalmente, lei mi raggiunse. Un attimo prima un sussulto le aveva tolto la vita, un altro gliene aveva donata una nuova. Ora, come me, sapeva. Non vi era alcun motivo per restare ancora.

Un pipistrello stridette nel cielo, un altro compagno della notte come noi. Un attimo dopo, come lui, volammo via, fianco a fianco, neri sposi immortali, incontro alla luna piena.


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Una risposta a “Lei, la mia vita”

  1. Avatar Nathan
    Nathan

    Bel racconto, mi è molto piaciuto. Grazie!

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